VITE DI SPERANZA E DISPERAZIONE FILMATE DA DENTRO
A colloquio con il regista Pino Esposito

Il regista calabrese Pino Esposito, da 12 anni residente a Zurigo dove ha fondato la compagnia teatrale "Oziosazio" ( www.teatro-oziosazio.ch ), sarà presente alle Giornate del Cinema di Soletta il prossimo 27 gennaio con il documentario "Il nuovo sud dell'Italia". Realizzato con grande passione e con pochissimi mezzi, il film racconta in modo crudo la quotidianità e il destino dei numerosi migranti che vivono in alcune regioni del meridione, tra cui la Calabria, balzata alla ribalta della cronaca per la rivolta degli extracomunitari avvenuta a Rosarno agli inizi di gennaio. La telecamera sensibile ed empatica di Esposito scandaglia il complesso fenomeno migratorio mettendone in luce l'aspetto umano che talvolta i telegiornali passano in secondo piano a vantaggio della cronaca. Eppure sono uomini quei disperati che abbandonano le terre d'origine nella speranza di migliorare la loro condizione. Sono uomini quei ragazzi che rischiano la vita attraversando il mare. Sono uomini quelle braccia sfruttate da gente senza scrupoli che li tratta alla stregua di schiavi. Sono uomini quei corpi morti stesi nella sabbia del deserto, immortalati da un cellulare e visti in televisione qualche giorno fa.

Come è nato "Il nuovo sud dell'Italia"?

Non è soltanto un film sui clandestini perché a me interessava anche il nuovo scenario costituito da immigranti che approdano nel sud Italia. Da tempo volevo realizzare un documentario che parlasse con sincerità e con passione di gente che ha vissuto l'emigrazione sulla propria pelle e che è stato a stretto contatto con il mondo dei migranti. Sono perciò sceso in Calabria dove ho trovato Carlo Caravetta, presidente dell'Associazione Torre del Cupo a Schiavonea. Una sorta di mediatore tra i nuovi migranti, provenienti dall'Africa, Romania, Bulgaria, Polonia ecc, i datori di lavoro e i comuni. Di lui mi ha colpito la passione che ci mette nell'aiutare quelle persone ed è precisamente quella passione che volevo filmare e che avvertivo come sincera nel momento di riprenderla. A Zurigo ho anche incontrato il fotografo Antonio Murgeri che ha vissuto in prima persona l'esperienza dell'emigrazione, immortalata anche nei suoi lavori. L'incontro con questi personaggi mi ha emozionato tanto da dare una svolta decisiva alla sceneggiatura del film scritta in precedenza: elementi sconvolgenti e sorprendenti che non avevo messo in conto sono entrati nel film stravolgendo l'idea iniziale.

Lei stesso è un emigrato. Che cosa rappresenta per lei questa condizione?

Rispetto agli emigranti protagonisti del mio film io sono un emigrante privilegiato. So comunque che cosa significa vivere nell'estraneo, che cosa siano gli attimi di solitudine con tutte le conseguenze del caso. Mi è stato chiesto perché non facessi un film sugli emigranti che vivono in Svizzera. A dire il vero quella italiana è oggi una emigrazione integrata, mentre la nuova emigrazione nel sud dell'Italia è qualcosa ancora ferma all'anno zero.  

La cronaca recente lo ha messo in luce. Come è stato filmare da vicino una realtà dura come quella vissuta dai nuovi migranti?

Noi siamo stati in Calabria lo scorso anno e vi abbiamo trovato una situazione indescrivibile. In alcuni momenti sentivo la necessità di lasciare la telecamera da parte perché non mi sentivo più in un film ma di fronte a una realtà cruda, toccante, violenta che io cercavo di monitorare attraverso l'obiettivo che però creava una distanza. I migranti in quel momento erano però come nudi davanti alla telecamera che cercava di tradurre quella realtà. Io stavo cercando di tradurre in immagini il loro vivere, ma mi rendevo conto di essere incapace di restituire i loro racconti crudi, violenti, dolorosi. L'obiettivo stava spezzando quei momenti di verità pieni di passione impedendomi di cogliere le sensazioni e le emozioni vere. Per viverle, ho perciò dovuto liberarmi della telecamera e stare vicino a loro, con loro. È stato necessario immedesimarsi nei loro racconti, entrare in quegli attimi veri: soltanto a questa condizione sarebbe stato possibile filmare qualcosa di reale capace di emozionare il pubblico del documentario, altrimenti sarebbero potute essere immagini manipolate. Mi sono alla fine convinto che avrei potuto raccogliere quelle emozioni nel momento in cui mi sono messo a filmare con tanta passione e tanto dolore dentro.

Tuttavia il sentimento non basta, è pure necessaria la competenza tecnica: un documentario è anche un prodotto che va elaborato prima di acquisire una forma definitiva. Come ha proceduto per conciliare questi due aspetti?

Il montaggio è stato sicuramente la fase più difficile, più dura, perché bisogna mettere da parte il cuore e usare la ragione. Prendere frammenti e combinarli per trovare una forma da dare al film è stato un lavoro molto interessante perché è stata una ricerca, anche se non semplice. Si può anche avere del buon materiale, ma non significa ancora che il risultato finale sarà buono. Per questo motivo il lavoro di montaggio si è prolungato per nove mesi, ma alla fine il documentario è uscito como lo volevo io: crudo, forte, un pugno nello stomaco.

Il film è incorniciato dalle fotografie in bianco e nero di Antonio Murgeri. Quelle iniziali ritraggono il cimitero di barche a Lampedusa con le quali gli emigranti sono partiti dalla Libia. Sono di una triste bellezza, anche perché non si è nemmeno avuta la sensibilità di togliere da quelle imbarcazioni le coperte o le scarpe di chi era a bordo: a chi le guarda sembra di vedere i volti delle persone che sono state lì sopra. Le fotografie che invece chiudono il film sono state scattate a Napoli, luogo dove alla fine converge la maggioranza degli immigrati, anche quelli deportati da Rosarno.

Qual era la situazione quando è andato a Rosarno nel 2008 per filmare?

Le riprese a Rosarno sono state realizzate dal giornalista Piervincenzo Canale: un'altra persona che oltre alla sua professione aiuta gli immigrati che lavorano nel periodo tra novembre e gennaio nella piana di Gioia Tauro. Li ha filmati a Rosarno, riprendendoli in quei luoghi, come la ex cartiera, che tutti abbiamo visto nei telegiornali. È pure andato a intervistare quei due ragazzi cui avevano sparato nel 2008. Per capire la rivolta di poche settimane fa, bisogna quindi guardare indietro per sapere il tipo di vita che fanno queste persone sfruttate. La mattina all'alba, quando sono in marcia in fila indiana sulla statale, aspettando il furgone che li accompagnerà nei campi a lavorare per 20 euro al giorno, sembrano figure immobili, sagome spettrali che, nonostante la tristezza che vi si avverte, hanno qualcosa di dolorosamente bello. Io ho filmato scene anologhe nella Sibaritide. Ho visto questi uomini abbandonati al loro destino, un sacchetto di plastica in mano come unica cosa loro. Quando si vedono scene del genere, ci si chiede come sia possibile che ciò accada ancora nel 2010.

Il suo è un documentario schierato?

Il mio è semplicemente uno sguardo nei destini di alcune persone. Incontri con uomini che sentivo avevano il desiderio di raccontare la loro odissea, il loro destino; altri, invece, hanno mostrato tutta la loro rassegnazione. Vi sono anche testimonianze che mostrano che alla fine si tratta di una guerra fra poveri. Nel film si vede il calabrese povero che va a raccogliere legna sulla spiaggia con la paura che arrivino i rumeni e che gli portino via quel poco che c'è; ci sono i marocchini che temono i rumeni; i polacchi che picchiano il polacco più debole. Le tensioni e la violenza nascono precisamente dal voler proteggere quel poco che si ha.

Che cosa sta accadendo in Calabria?

La mia impressione è che della Calabria si stia facendo, in forma sperimentale, un grande contenitore che ammassi i poveri con i poveri. Gli immigrati in Calabria oggi non arrivano più dalla Libia, ma da Brescia, Bergamo, Verona con tanto di permesso di soggiorno. Alcune terribili leggi messe in campo da sindaci leghisti fanno sentire ai migranti di non essere più ben accetti e così loro scendono verso sud pensando che laggiù la gente, nelle cui famiglie si trova sempre almeno qualcuno con alle spalle una storia di emigrazione, sia più ben disposta nei loro riguardi. È una forma ingenua di pensare perché nel meridione mancano infrastrutture adeguate, centri di accoglienza volti ad ospitare questi disperati. Quando nel 2008 sono stato a filmare in Calabria, la tensione era nell'aria, si sentiva che prima o poi sarebbe successo qualcosa. Il flusso di migranti, spinti verso la Calabria, crea una forma di paura tra la gente, acuendo la tensione.

Quali altri fattori alimentano la paura?

Siccome viviamo nella società delle immagini, la televisione ha una grande responsabilità in tutto ciò che accade. È giusto che essa mostri quanto avviene, ma se non lo racconta con sensibilità, rischia di provocare danni. Io in Calabria ho constatato che le persone sono impaurite non perché la realtà faccia paura, ma perché fa paura ciò che vedono in tv. Se nei telegiornali viene mostrato che alcuni rumeni hanno violentato una ragazza a Roma, la gente crede che la realtà sia soltanto quella, mentre si tratta di una parte della realtà. Con questo non intendo dire che la tv manipoli il reale: essa dà la propria visione di un fenomeno sfaccettato e complesso, diventando però spesso l'unica verità per molta gente che non ha dimestichezza né con i quotidiani né con i libri. La gente avrebbe un altro punto di vista se leggesse il noto libro del giornalista Fabrizio Gatti intitolato "Bilal. Il mio viaggio da infiltrato nel mercato dei nuovi schiavi" (Rizzoli, 2007). Un racconto vero, crudo, una testimonianza diretta perché, come dice il sottotitolo, egli ha toccato con mano quella dimensione spacciandosi per il clandestino Bilal.

Qual è la sua lettura dei recenti fatti di Rosarno?

Credo che è una sconfitta sia per i rosarnesi che per i ragazzi di colore perché sono tutti vittime. Il messaggio arrivato alla gente mi pare dica che gli abitanti di Rosarno sono razzisti e gli immigrati colpevoli. Secondo me i rosarnesi hanno accolto col cuore gli immigrati - da calabrese lo posso dire. Se la popolazione di Rosarno se l'è presa è perché la si è fatta passare per razzista. La gente per bene di Rosarno, che aveva buoni rapporti con i migranti, ha pagato per quei pochi, privi di scrupoli, che hanno sfruttato gli extracomunitari. Ma, ripeto, entrambe le parti sono state vittime degli eventi. Purtroppo non si è approfondito veramente ciò che è successo, che cosa ci sia dietro alla reazione violenta dei migranti, perché si è permesso che la loro situazione si trascinasse per vent'anni. Molti sapevano dei luoghi fatiscenti in cui erano costretti a vivere, molti erano al corrente del loro sfruttamento per mano di pochi. Se questi aspetti fossero stati focalizzati da parte dei media, si sarebbe meglio capito perché si è arrivati a tanto. Sarebbe pertanto necessario concentrare l'attenzione su quelle poche persone che sono responsabili di quanto accaduto. In ogni caso il mio documentario non intende condannare nessuno, perché non ci sono i buoni da una parte e i cattivi dall'altra. Il film è la testimonianza di questi migranti che si raccontano e che hanno bisogno di far conoscere il loro destino che pensavano sarebbe stato di speranza al momento di lasciare la loro terra d'origine.

Il suo documentario verrà presentato fra pochi giorni alle Giornate del Cinema di Soletta. Quali sono le sue aspettative mettendo sotto gli occhi di tutti un tema scottante?

La tematica affrontata nel film non riguarda soltanto l'Italia, ma è un problema globale. Ora l'Italia è riuscita a fermare questi flussi migratori grazie agli accordi con la Libia e il ministro Maroni ne va tanto fiero. Tuttavia, non sanno, o non vogliono sapere, che cosa stia succedendo a ridosso di questo "successo": il dramma umano vissuto da migliaia e migliaia di ragazzi che ad Agadès, nel Niger, sono bloccati. Quando gli africani vi arrivano, pensano di essere già quasi in Europa, ma non è così. Ora, questi migranti sono insabbiati lì, senza poter proseguire o ritornare. Chi era partito per il viaggio della speranza, rappresentava per la famiglia una risorsa, un investimento. Qualora qualcuno fosse anche in grado di ritornare, probabilmente non lo farebbe, perché sarebbe una sconfitta che non verrebbe tollerata non solo dalla famiglia ma dalla comunità. Io avrei voluto andare in quei luoghi a filmare e documentare quanto sta accadendo, ma è impossibile ottenere i permessi. Le immagini più drammatiche di ciò che sta avvenendo da quelle parti sono quelle di corpi senza vita in mezzo al deserto, mostrate qualche giorno fa ad "Annozero", la trasmissione di Santoro. Se mi aspetto qualcosa dal Festival di Soletta è che il mio documentario porti lo spettatore a soffermarsi sul quotidiano di questi migranti in Calabria e d'altra parte a riflettere sul fatto che non si arrestano i flussi migratori con le misure adottate, perché la chiusura delle frontiere implica d'altro canto il dramma umano, la disperazione di moltissima gente come quella ora bloccata ad Agadès. Non dico che si debbano lasciar entrare tutti i migranti, perché è noto che molta criminalità riesce a penetrare in Europa mischiandosi nella massa, ma che almeno si valuti chi sta fuggendo da una guerra e chi ha quindi il diritto di chiedere asilo. L'Italia attualmente non lo sta facendo affatto. Non deve accadere che queste persone perdano, oltre alla speranza, anche la vita.

Luca Bernasconi